L’ultima omelia del vescovo Pompili ad Amatrice: “Qui finalmente c’è un cantiere. Ed è il momento di vedere oltre”

Foto: Emiliano GRILLOTTI ©

Amatrice oggi ha ricordato le sue 239 (di 300) vittime del sisma del 2016. Cerimonia nel campo sportivo Paride Tilesi, con familiari e autorità. La messa è stata presieduta dal vescovo di Rieti Domenico Pompili, alla sua ultima celebrazione legata al sisma. Terremoto che fu, di fatto, il primo, vero, impegno per Pompili, appena arrivato a Rieti quando le scosse colpirono il Centro Italia. Prima della messa, Pompili, ha ricordato l’impegno internazionale per Amatrice oltre a quello degli italiani. Stanotte Pompili ha partecipato alla veglia e alla fiaccolata.

“Amatrice è chiamata “Città degli italiani”. Ed a ragione. Perché se non fosse stato per l’istantanea solidarietà di tante donne ed uomini, già all’alba tragica di 6 anni fa, molti oggi non sarebbero qui – dice Pompili – La solidarietà concreta e immediata ha contagiato bel al di là dei confini nazionali, come in Germania. Oggi siamo qui per dire grazie alle italiane e agli italiani; per dire grazie all’Italia perché attraverso il suo Stato ha disposto generosamente risorse perché la vita possa rinascere. Diciamo grazie pensando a quelli che 6 anni fa scomparvero in un baleno. E siamo qui dopo la veglia notturna per vivere l’Eucaristia che è il rendimento di grazie più incredibile. Si tratta infatti di rendere grazie a Dio per la morte e resurrezione del suo Figlio perché la speranza con la “S” maiuscola prenda piede nella nostra vita. È questa fede che ci spinge a ritenere che quei legami che costituiscono la terra ferma della nostra comunità non si dissolvono, ma ritrovano vita in Dio”.

L’OMELIA

VI anniversario del terremoto 2022

(Ap 21, 9b-14, Sl 145; Gv 1,45-51)

            Filippo gli rispose: Vieni e vedi”. Filippo non si scompone affatto dinanzi a Natanaele, che è poi il nome di Bartolomeo. Questi è un tipo tagliente, e per niente accomodante, che replica con sarcasmo a Filippo, entusiasta per l’incontro con Gesù, che però ai suoi occhi è solo uno sconosciuto. Di qui l’invito perentorio che si sente rivolgere: “Vieni e vedi”. Delle persone, come delle cose, non bisogna parlare per sentito dire o per pregiudizio, ma andando di persona a vedere. E che cosa si vede venendo qui ad Amatrice dopo 6 anni? A prima vista, tutto sembra fermo all’istantanea della torre che si erge isolata in mezzo al deserto. Ma se si guarda con più attenzione, si scopre che sotto c’è un cantiere, finalmente in movimento. Appena più su nell’area del don Minozzi comincia a prendere forma la “Casa del futuro”. Appena più giù si delinea il nuovo ospedale di Amatrice. E poi ci sono gru sparse qua e là. Per vedere, dunque, bisogna venire. Dopo l’estenuante fase iniziale, ora è il tempo della ricostruzione, ma per arrivare a quella della ri-generazione vera e propria, occorre “venire”. Tutti devono venire: pubblico e privato, stato e società civile, operatori economici ed ordini professionali. Senza il coinvolgimento di tutti, infatti, l’attesa potrebbe allungarsi ancora.

Vieni e… vedi”. Cosa vede chi verrà? Non solo quello che si vede ad occhi nudi, ma anche quello che va immaginato. Quel che vedremo, infatti, non può essere la semplice rievocazione di quel che fu Amatrice. Del resto, non è la prima volta che Amatrice rinasce. Nel corso della sua storia secolare diverse sono state le stagioni. Ogni volta imprevedibili. Non solo per via dei terremoti dal Medioevo all’età moderna. Come all’inizio del Novecento, quando i grandi armentari e i pastori di Amatrice, dettero nuovo vigore alla pastorizia che sembrava già allora destinata ad un rapido declino, rivitalizzando tutte le attività ad essa collegate, che prosperarono per almeno un altro secolo ancora. I nostri bisnonni ebbero immaginazione e non si arrestarono a quel che cadeva sotto i loro occhi. Videro “oltre”. Tale sguardo non schiacciato sul presente, ma aperto al futuro, non è senza conseguenze. Richiese allora spirito di iniziativa, coraggio e sacrificio. Tali sono oggi le risorse indispensabili per affrontare un futuro tutto da vedere. Perché ci si muova con creatività e non con ripetitività; con audacia e non con paura; con disinteresse e non con la sola ricerca dell’utile proprio.

E’ questa, del resto, la lezione che riguarda l’intero Paese, l’Italia, che deve imparare a ri-nascere, a ri-partire, a ri-cominciare. Non è automatico. Così è la vita che non si dà una volta per tutte, ma chiede ad ogni generazione di riappropriarsi della stessa. E’ questo il “domani” del terremoto. Non più il “24 agosto” – quando comunque continueremo a serbare grata e struggente memoria delle vittime – ma “ora”. E’ “adesso” il momento di vedere “oltre”, di scorgere il domani. Come mi scrisse uno di voi: “Non ti abbandoneremo uomo dell’Appennino: l’ombra della tua casa tornerà a giocare sulla natia terra. Dell’alba ancor ti stupirai”.

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