Passo Corese, il responsabile di Amazon: “Braccialetto fake news, qui si abbracciano robot e umani”

(Agi) Alle sei del mattino del 18 settembre 2017 un volume dei Promessi sposi ha rotto il silenzio del centro di distribuzione di Amazon appena inaugurato a Passo Corese, nel Reatino. Arrivava da una casa editrice per finire sui carrelli del primo centro ‘semi robotizzato’ di Amazon in Italia. Il volume ha fatto ronzare per la prima volta il nastro trasportatore dei pacchi, percorrendo una parte dei 14 chilometri di carrelli che disegnano gli spazi del centro. Ha incontrato le prime mani di un operatore e attivato il primo robot muovendosi secondo i disegni dell’intelligenza artificiale per i 65 mila metri quadrati del centro, un’area pari a dodici campi di calcio.

Fino ai primi anni del duemila su questa collina del Reatino non c’erano che stalle e uliveti. Alcune centinaia di ulivi sono rimasti, li ha voluti Amazon: 250 alberi da olive della qualità rinomata di Fara Sabina. E’ in questo centro di distribuzione che Amazon sta sperimentando in Italia il delicato ‘abbraccio’ fra robot e uomo. Anzi, per usare le parole del manager responsabile del centro, Tareq Rajjal, fra robot e ‘umani’.

“Questo di Passo Corese è un centro di distribuzione di assoluta avanguardia”, spiega all’Agi Rajjal, nato in Giordania ma formatosi a Torino. “Qui è tutto pensato affinché siano massimi l’efficienza e la precisione ma anche il comfort dei nostri dipendenti”. Si capisce subito che Passo Corese per Amazon è un posto speciale. Per capirne il motivo bisogna sapere le tre cose che fanno i centri di Amazon: ricevono le merci, le organizzano in un magazzino, le richiamano quando c’e’ un acquirente da qualche parte del mondo. L’organizzazione del magazzino è ciò che rende Passo Corese un’eccezione di cui qui vanno molto fieri.

Se la fase di ricezione e uscita delle merci rispecchia logiche sostanzialmente collaudate, con un lavoro essenzialmente legato all’uomo, la grande novità è l’introduzione dei robot e dell’intelligenza artificiale nel sistema di deposito e organizzazione delle merci. “Qui non ci sono i runner“, spiega Rajjal, ovvero gli impiegati che percorrono in lungo e in largo il magazzino per chilometri cercando un prodotto da consegnare.

“Questo processo è svolto interamente da robot”. Si tratta di piccole macchine arancioni poco più grandi di un metro quadrato, dal peso di 142 chili l’una e capaci di trasportare pile di oggetti che pesano tre volte tanto. Tutto è organizzato da quello che il manager continua a chiamare “Il sistema”. I computer distribuiscono gli oggetti nelle pile per un massimo di 350 chili, da soli – dice all’Agi il responsabile del centro di Passo Corese – stabiliscono come organizzare il peso e come è meglio posizionato il baricentro”. I robot si inseriscono sotto le pile gialle e le sollevano. Quanti robot sono impiegati qui è un segreto, come segreto è tutto ciò che riguarda quantità di merci smistate e consegnate, ma di robot se ne vedono a decine mentre percorrono il magazzino tracciando rette, come cardi e decumani immaginari disegnati dall’occhio invisibile dell’intelligenza artificiale. Sono circa 100 mila i robot impiegati globalmente da Amazon, in 25 centri dislocati in tutto il mondo.

Nelle pile gli oggetti sono sistemati senza un ordine preciso che non sia quello del peso e della forma. Ogni oggetto ha un codice. E questo al sistema basta per sapere sempre dov’è e organizzare il magazzino. I robot mettono la forza, mentre gli ‘umani’ controllano gli oggetti, in entrata e in uscita.

A Passo Corese lavorano 400 persone a tempo indeterminato, più un numero imprecisato e assai variabile di lavoratori interinali e part time. Vengono chiamati nei periodi di maggior traffico di merci. “Generalmente luglio quando Amazon fa i suoi sconti, settembre quando sta per cominciare la scuola e dicembre in occasione delle festività del Natale”, spiega Rajjal. “Il nostro, dopotutto, è un business stagionale”. Ma l’azienda conta di assumere altre 800 persone entro il 2020, portando il numero complessivo a 1.200 dipendenti. Il 95% di chi lavora qui abita a 40 km dal centro, l’età media è 35 anni, circa metà sono donne, pochissimi gli stranieri.

“E’ vero, Amazon da sempre punta sull’innovazione e sull’efficienza”, continua il manager, “e questo avviene anche grazie ai robot. Ma per noi gli ‘umani’ sono insostituibili e so che lo resteranno per molto tempo ancora. L’uomo e’ l’unico in grado di individuare difetti e problemi. Ci sono molte cose che i robot non sono in grado di fare”. Mentre parla, dietro di lui un oggetto cade da una pila robotizzata. Una piccola custodia rossa, impossibile capire cosa possa contenere. Il robot si ferma e poi, a ruota, si fermano tutti quelli intorno a lui. Un piccolo cancello si apre e nell’area degli automi entra un uomo. E’ un ‘amnesty processor’, professionisti che mettono a posto qualcosa che le macchine hanno fatto male. “Ah, dimenticavo”, tiene a sottolineare Rajjal, “anche recuperare oggetti e’ un lavoro impossibile per loro”.

Gli uomini servono, per ora, e la loro ‘disponibilità’ come forza lavoro è uno dei tre parametri che porta Amazon a investire in un luogo. Gli altri sono la logistica (a Passo Corese sono state create strade che collegano il centro alla E45) e ovviamente la necessità di raggiungere prima i clienti dove il mercato richiede sempre più prodotti. In questo caso il centro e il sud, che coprono circa il 90% delle zone raggiunte da questo centro. Il resto va al Nord Italia, in Francia e in Spagna, “ma anche in tutti i Paesi dove è forte la comunità di italiani emigrati, come gli Usa o l’Argentina. Vogliono soprattutto libri e musica”, spiega Rajjal, che precisa: “Noi non scegliamo dove andare in base a sgravi fiscali o incentivi dello Stato che ci ospita. Ogni nostra scelta e’ presa in modo assolutamente autonomo”.

Ma la vicinanza ai territori da raggiungere non è la priorità della multinazionale Amazon, che pensa come rete globale. “Noi ragioniamo come network. Quando un cliente vuole un prodotto X nell’area Y, il sistema si chiede: qual è il modo più veloce ed efficiente per soddisfarlo? Non conta da dove parte il pacco, conta che il suo percorso sia efficiente”, continua il manager. “Il 90% della merce che passa da qui comunque si muove su gomma, il resto in aereo via Fiumicino”.

Non è un caso che questo centro si chiami FCO-1, mutuando il nome dalla sigla dell’aeroporto romano. È così in tutto il mondo, come a Piacenza dove il centro si chiama MXP per via della vicinanza a Malpensa. I centri di distribuzione Amazon prendono il nome degli aeroporti, i luoghi da dove partono i mezzi per eccellenza della globalizzazione.

Un operaio sa bene che qui lavora alle stesse condizioni di qualsiasi altro dipendente Amazon nel mondo. Lo sa Gianmarco, 22 anni. Lavora qui da ottobre, prima era disoccupato: “All’inizio qui avevo un full time, adesso un part time. Certo, avere lo stipendio completo a fine mese è meglio, sai com’è, anche perché ci metto un’ora tutti i giorni per arrivare qui da Tivoli. Il lavoro mi piace, ma coi turni non e’ facile e a volte quando torno la sera a casa crollo subito e non ho la forza di fare altro”.

I turni qui sono di 7 ore e mezzo, 24 ore al giorno: cominciano alle sei del mattino, per concludere il ciclo di tre turni alla stessa ora del giorno successivo. Antonino, 54 anni di Rieti, ai turni invece e’ abituato. Ha lavorato una vita nella logistica, prima di perdere il lavoro ed essere assunto da qualche mese da Amazon:

“Qui è un altro livello, per tecnologia impiegata e qualità del lavoro, non ho mai lavorato così bene”. E sull’ipotesi di introdurre il braccialetto elettronico per guidare le mani degli operai, che tante polemiche ha suscitato in Italia? “Non mi spaventa piu’ di tanto, ma per ora se ne sa pochissimo. No, tra di noi ne abbiamo parlato appena, ma nessuno sembra essere davvero preoccupato”, assicura Antonino.

Il capo giordano di Passo Corese bolla la questione del braccialetto come un’inspiegabile fake news: “Non capiamo da dove sia uscita questa notizia, che è assolutamente falsa. E’ un brevetto, ma al momento nemmeno noi ne sappiamo nulla. E comunque, per quanto ne so io, quel braccialetto esiste già ed è già impiegato da molte aziende”, aggiunge Rajjal senza però specificare quali. Tra i dipendenti con cui abbiamo potuto parlare, pochi, cuciti commenti sull’argomento. In quest’area, dove la delocalizzazione delle aziende negli ultimi 20 anni ha colpito duro creando grosse sacche di disoccupazione, il lavoro e’ un bene raro e da tenersi stretto.

Nella sala mensa campeggia grande una scritta: “Work hard, have fun, make history” (“Lavora sodo, divertiti, fa’ la storia”). La sensazione e’ che in questo capannone – tra nastri, carrelli, scanner e braccia che impacchettano oggetti lasciando che sia “il sistema” a scegliere quale sia il pacco migliore per farlo – la storia, in qualche modo, si stia già facendo davvero. (di Arcangelo Rociola)

Foto: (archivio) RietiLife©

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