Mario e Carlo Verdone, quel legame con la Sabina / Oggi il centenario della nascita del grande critico cinematografico

(di Sabrina Vecchi) L’ansia da prestazione da figlio d’arte, la paura di non essere all’altezza, il timbro col “marchio di fabbrica” di famiglia non toccano Carlo Verdone. Figlio di Mario. Trattasi di Mario Verdone per chi non avesse contezza, critico cinematografico, studioso, tra i massimi esperti del futurismo, amico di De Sica, Fellini, Visconti, Rossellini e scusate se è poco. Era il 27 luglio di cento anni fa quando Mario venne alla luce, casualmente ad Alessandria, dove il padre Oreste era ricoverato per ferite di guerra. Il parto avvenne durante una visita in ospedale della moglie Assunta, felice coincidenza che permise al padre di vedere subito il bimbo. Oreste mori’ in trincea solo pochi mesi dopo, ma ebbe il tempo di raccomandare alla moglie di far studiare il piccolo, “costi quel che costi”. E Mario studiò.

Eccome se studiò. Lo raccontano le migliaia di volumi raccolti nella casa in Sabina della famiglia Verdone – la “mia” Sabina, moto di orgoglio – , lo racconta la storia della cultura italiana, lo racconta emozionato il figlio Carlo. Figlio di Mario. Prima il liceo, poi docente e direttore di Scienze dello Spettacolo a Parma, poi alla Facoltà di Magistero a Roma. Lo muoveva la curiosità, la voglia di imparare e conoscere, la passione per i suoi interessi. Uomo tutto d’un pezzo Mario, tra i corridoi dell’università ti causava pure una giusta dose di soggezione. Un giorno bocciò uno studente ad un esame pregandolo di ripresentarsi alla sessione successiva, alle rimostranze del ragazzo rispose “mi dia del lei e vada”.

Eravamo a Roma, erano gli anni sessanta e quello studente era Carlo, il figlio di Mario. Il ragazzo cresceva ed iniziava a riscuotere i primi successi, a volte timoroso del giudizio del padre, a volte sicuro delle proprie potenzialità. Da quel buco sul vetro della casa su Lungotevere dei Vallati al civico 2, un buco che affacciava proprio sullo studio del padre, l’occhio di Carlo carpiva tutto il carpibile. Scrittori, registi, direttori d’orchestra colloquiavano con Mario, provavano, si confrontavano. E giù risate. La risata di Mario è quella di Carlo, si allarga all’improvviso. Parte da un viso serio con gote paffute piazzato su un portamento da nobile dei tempi dei nobili veri. Non di quelli decaduti che fanno finta di essere raffinati e poi si abbuffano ai rinfreschi dove non si paga. Eravamo al festival del cinema di Poggio Mirteto solo un mese fa – provincia di Rieti, altro moto di orgoglio – Carlo sedeva a due posti di distanza da me. Proiettavano un documentario sulla sua carriera, sullo schermo i suoi esilaranti personaggi: il coatto, l’imbranato, il professore, il prete con un occhio in fuorigioco. La gente si sbellicava. Lo scrutavo, era serissimo. Uno spettacolo nello spettacolo: Carlo guardava se stesso al lavoro, si estraniava, probabilmente si criticava, anche. Sono andata a salutarlo, ero quella che ogni tanto lo importunava per le interviste, quella che aveva studiato sui libri di Mario. E lì, tac, il sorrisone. Sono fiero, di essere il figlio di Mario.

Foto: RietiLife ©

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