“L’EDITORIALE DI FORMAT”

GLI UNTORI di Stefania Santoprete.

E’ un attimo, una parola basta per travolgere una vita: una slavina che porta con sé le altre, quelle di familiari, parenti, amici. Per cosa? Per uno sport molto amato dalla nostra Città (dovrei dire dal nostro stesso Paese): il gossip. Cosa si guadagna? Il gusto di poter dire “Ma lo sai che…?” E molto spesso a diffondere la ‘peste’ del sospetto, della cattiva reputazione, sono gli stessi che s’indignano per i mostri in prima pagina, per l’eccessiva caparbietà dei giornalisti intorno ad una tragedia, per il turismo del macabro. Benpensanti, ma malagenti. Una parola dietro l’altra diventa catena, s’arricchisce di perle curiose, pietruzze di fantasia, completata di solito da un ciondolo d’oro di Bologna: ‘Me l’ha detto una sua amica”. Alla faccia dell’amica! Pettegolezzi, dicerie, che diventano ingiurie ben più offensive, si rivelano calunnie: minano la dignità e la credibilità delle vittime, viaggiano a  gran velocità in ogni direzione e intaccano la serietà e la tranquillità di chi ne è stato fatto oggetto. In alcuni casi si tratta di parole al vento, prive di qualsiasi fondamento, insinuazioni diffuse ad arte, proprio con l’intenzione di ferire. Sono purtroppo vere e proprie armi, consapevolmente utilizzate per isolare l’avversario e sconfiggerlo con l’attacco più potente: quello della solitudine e dell’indifferenza. Ma anche se ci fosse un pizzico di verità dietro quelle parole, che diritto abbiamo noi di diffonderle? Quanto poco rispetto c’è in un solo gesto? Quanto siamo lontani da quel senso di compassione che dovrebbe portarci a immaginare il dolore che potrebbe scaturirne? Oggi tocca a lui, a lei ma… se domani toccasse a noi? Basta l’innocenza per essere immuni? L’elemento nuovo è che oggi agli ‘untori’ appartiene maggiormente il genere maschile. Colpa del post femminismo? Sono sempre più ‘maschietti’ i bene informati, forse perché ormai rimane a loro un po’ del tempo libero che una volta era prerogativa delle donne sedute, dopo i lavori domestici, fuori casa a spettegolare. Oggi le donne hanno altro da fare, sebbene sia insito nel nostro Dna l’interesse per il genere umano. Anche la Rete contribuisce alla delazione. Lo spirito critico sembra venir meno quando ci si trova a fare quel ‘click’ che in un secondo ci permette di condividere tutto, impulsivamente. Leggenda metropolitana? Notizia costruita ad arte? Post vecchio di anni? Tutto fa brodo nel mondo virtuale. Le implicazioni, sebbene ci siano, sfuggono a causa della leggerezza con cui si accede ad un mezzo dalla portata enorme. Che importa se si fa riferimento a persone ‘vere’, in carne ed ossa, di cui, a volte, non si ha la ben minima conoscenza? Sì, in questo editoriale metto tanta rabbia.  Qualcuno potrebbe giudicarla eccessiva, ma se aggiungessi che per cambiare questa città occorre cambiare la testa di ognuno di noi, forse sarebbe più facile capirne la motivazione. Avete presente il senso di libertà che in molti dichiarano di avvertire quando si muovono altrove e che rivendicano? Dovuto a cosa? Al fatto di poter girare liberamente senza qualcuno che ti osservi, che giudichi, che commenti. Ognuno pensa ai fatti propri, forse anche noi mentre camminiamo liberi da condizionamenti. Applichiamo questa regola anche ‘in casa’. Facciamoci i fatti nostri, pensiamoaciòchestiamodicendo – allapersonacheabbiamoaccanto – al gelatochestiamomangiando e passiamo oltre. Evitiamo di far domande su cose che non ci riguardano, non prestiamo il fianco a chi vuole esercitare il gusto dello ‘scoop’: è l’unico modo per interrompere la catena. Troppe chiacchiere, pochi fatti. Rimango ammirata davanti alle piazze virtuali nate su Facebook che si interessano dei problemi cittadini, decine di belle menti che passano ore della loro giornata dinanzi ad un computer a ‘teorizzare’, ‘dibattere’, ‘denunciare’: impegno rispettabile e forse anche necessario. Poi mi chiedo se non sarebbe più produttivo vederli scendere in strada, in prima linea, in associazioni, comitati, circoscrizioni, più a contatto con la realtà anziché col virtuale. Si rischia altrimenti di sentirci tutti ‘allenatori’ senza saper tirare un calcio ad un pallone. Si fa presto a parlare, non costa nulla.  C’è una scena di una fiction dedicata a San Filippo Neri che mi è rimasta bene impressa e dovrebbe tornarci alla mente ogni volta che la nostra bocca si apre per formulare giudizi o riferire fatti non di nostra competenza. Una donna e suo marito confessarono il loro peccato: aver sparlato di alcune persone. Il Santo li assolse ma diede una strana penitenza: tornare a casa, prendere una gallina e tornare da lui spiumandola ben bene lungo la strada. Perplessi i due ubbidirono. Quando gli furono davanti S. Filippo aggiunse “Adesso tornate a casa e raccogliete una ad una le piume che avete lasciato cadere venendo qui.” Gli fecero notare che sarebbe stata impresa impossibile, il vento certamente le aveva disperse dappertutto nel frattempo. “Vedete – disse San Filippo – come è impossibile raccogliere quelle piume, una volta sparse al vento, così è impossibile ritirare mormorazioni e calunnie una volta che sono uscite dalla bocca.” Si fa presto a parlare, non costa nulla. Ma quando parlare diventa ‘sparlare’ c’è qualcuno che paga, profumatamente, anche se non siamo noi. Dovremo ricordarlo. Foto: Format © 29 Settembre 2012

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