Terremoto: vi raccontiamo quella mattina al De Lellis tra impegno, dolore e umanità

(di Sabrina Vecchi) Quante volte ci siamo lamentati della nostra sanità, delle code al Cup, di qualche disservizio del nostro Ospedale, quante volte abbiamo dubitato della sua efficienza, del suo prestigio. I casi di malasanità purtroppo capitano, certo, ma capitano anche quelli di buona sanità, di impegno, di umanità. E vanno raccontati. Alle prime luci dell’alba del 24 agosto sul San Camillo de Lellis si è abbattuta un’emergenza sanitaria mai vista prima, che nessuna esercitazione avrebbe mai potuto simulare.

Chi vi scrive era lì, e non credeva ai propri occhi, e neppure alle sue orecchie. Sirene, urla disperate, i fischietti della polizia municipale, il continuo ronzio delle pale degli elicotteri, i guaiti dei cani, le grida dei feriti. I medici, gli infermieri e gli inservienti invece silenziosissimi, guanti di lattice e sguardo concentrato, ad attendere le ambulanze con gli occhi di chi è consapevole di essere in trincea in una battaglia che non si può perdere. Quante volte ci siamo lagnati sulla base dello stereotipo del reatino indolente ed apatico, occupato a pensare solo agli affari propri. Ma al De Lellis quel tragico mattino non c’era quel tipo di reatino, ce n’era un’altra tipologia, quella di chi rientra volontariamente dalle ferie senza essere chiamato e si precipita a dare una mano. C’era il chirurgo che a fine giornata piangeva in un angolo perché avrebbe voluto fare di più, c’era l’infermiera di pediatria che dava la carica ai trenini elettrici per bimbi terrorizzati che chiedevano di mamma e papà, ma continuava a giocare sorridente anche se la carica lei, proprio non l’aveva più. E ancora.

I tecnici degli elettromedicali che controllavano le apparecchiature una ad una, l’impiegata che si fa portare i pigiami dei vicini di casa per cambiare i feriti coperti di sangue, il portantino che mette dieci euro in mano ad un anziano in attesa della Tac preoccupato perché “uscito senza soldi da casa“, lo studente in fila per ore per donare il sangue nel centro trasfusionale strapieno, l’elettricista che compra Topolino ed un cono gelato ad un bimbo solo e ferito, l’operaio che trancia con le tronchesi la cinghia di una tapparella per fare il guinzaglio al cane di un sopravvissuto perché “chissenefrega della tapparella, a questo è rimasto solo il cane“. Quanti occhi sbarrati, quanti volti coperti di polvere, quanto dolore abbiamo visto quel mattino. Di moltissimi di loro non abbiamo mai neppure saputo il nome, ci ricordiamo solo un particolare: le ciabatte spaiate, i capelli pieni di calcinacci, il tremore nel prendere la bottiglietta d’acqua che gli abbiamo steso, la telefonata che gli abbiamo fatto fare. E quello squillo a vuoto di chi si ricordava a memoria solo il numero di casa.

Foto: VECCHI ©

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