Amatrice, il vescovo: “Qui solo paralisi. È ora di avere un progetto: lo dobbiamo a chi non c’è più”

Il PalaSport di Amatrice, questa mattina, ha ospitato la messa per i tre anni del sisma. La funzione – officiata dal vescovo Domenico Pompili – andata in diretta su RaiUno. A commentare la messa in tv, Don Fabrizio Borrello.

Questa l’omelia pronunciata dal vescovo, che ad inizio messa, nel passaggio di richiesta di perdono dei peccati “e per le parole vuote pronunciate” ha incassato un applauso dai presenti.

III anniversario del terremoto (festa di san Bartolomeo)

(Ap 21, 9b-14; Sl 145; Gv 1, 45-51)

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo”. Il libro dell’Apocalisse non indulge a scenari apocalittici, ma – al contrario – concentra la sua attenzione su una città che annuncia il superamento del mondo attuale. Gerusalemme, dunque, diventa il simbolo di un mondo nuovo e allontana lo sguardo da un mondo vecchio e ormai anacronistico. A tre anni dal terremoto siamo comprensibilmente centrati sui ritardi della ricostruzione, sullo spopolamento, su una burocrazia che non conosce deroga, sul disamore che si intravvede rispetto a questa bellissima terra. Questo è il mondo vecchio. Non basta però quest’analisi indiscutibile. Occorre un’altra cosa: ci vuole una ‘visione’. Questo è il mondo nuovo.

A dire il vero, più che una visione in questi tre anni sono prevalsi ‘punti di vista’ diversi, anche a motivo dell’alternarsi di Governi, di responsabilità personali, di varia umanità. E la tendenza ogni volta è stata quella di ricominciare daccapo, nel modo esattamente contrario a chi è venuto prima. L’effetto inevitabilmente non poteva essere che lo stallo. Senza un progetto, cioè senza un respiro lungo non si va da nessuna parte. E come si vede, proprio in questi giorni, l’Italia stessa boccheggia.

Più che una visione in questi tre anni si è fatta strada una certa confusione. Se manca uno sguardo condiviso si spegne anche l’entusiasmo, passata l’adrenalina dell’emergenza. Sapere, ad esempio, cosa fare delle cosiddette ‘Aree interne’ del Paese è un modo concreto per fare chiarezza rispetto ad un contesto che va rigenerato non per ostinazione, ma per necessità. Perché l’Italia senza i borghi dell’Appennino non è più la stessa. Occorre però che su questa priorità si converga quando si decide di infrastrutture, servizi sociali, opportunità culturali.

Più che una visione in questi tre anni si è affermata una limitazione che coincide con il proprio ‘particulare’. L’ingenuità di cavarsela da soli, peraltro, è figlia di una mentalità diffusa: quella del ‘prima io’, che porta a non prendersi cura dell’insieme. Il rarefarsi della socialità, a dispetto dei social, è l’esito triste del restringimento mentale degli individui. E quando vien meno il campo largo sulla realtà la capacità di resistere scompare.

Ritrovare una ‘visione’, è l’unica strada per sottrarsi alla paralisi di un’analisi senza speranza. Lo dobbiamo non solo ai nostri figli, ma anche a quelli che non sono più tra noi. La domanda vera, infatti, non è “Da dove vieni?” quanto “Dove vai?”.

Foto: Francesco PATACCHIOLA ©

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