L’editoriale di Format – “Benvenuti ad Amatrice”

Su RietiLife l’editoriale di Format di ottobre a firma di Maurizio Festuccia.

Non si passa dalla Salaria, c’è da attendere un’oretta che torni una squadra dei Vigili del Fuoco e ci possa accompagnare su, nell’inferno. Allora si va a Sommati, lì c’è altro, ed altri, da raggiungere. C’è un campo della Protezione Civile allestito per accogliere in tendopoli la gente sfollata dell’intera area sottostante, quella delle frazioni un po’ più distanti.

Il capoposto, della squadra di Roma, ci accoglie e ci spiega come vanno le cose, ci mostra il suo “ufficio” di fortuna, i suoi collaboratori davanti ai computer, la posticcia veranda per un quarto di vino ed una partita a carte con gli sfollati, poi ci presenta Nando, il proprietario del rinomato ristorante del posto e dell’area che ospita l’accampamento. Lontano dai riflettori delle varie tv che l’hanno intervistato per giorni, Nando mi accoglie sottobraccio, con una particolare confidenza, come ci conoscessimo da tempo, da sempre. Siamo della stessa terra, penso, ci comprendiamo meglio. E poi, chi non è stato almeno una volta nel suo ristorante?

Locale che ha subito seri danni che lui ci mostra, da Cicerone, stanza per stanza fino alla martoriata cucina ormai sventrata ed inutilizzabile. “Una vita passata qui dentro, prima con mio padre ora con i miei figli, ed ora non posso più farci nulla. – ci racconta – Ci sono cose di valore storico che temo possano rubarmi in qualunque momento. Ora sono costretto a dormire in tenda, qui fuori, per paura degli sciacalli, ma come farò quando l’inverno mi costringerà a ripararmi altrove, lontano da qui?” Poi mi fa strada nel retro del locale per mostrarmi dove erano morti due inglesi che avevano deciso di acquistare a Sommati una casa, “Villa Olivia”, da qualche tempo… “Guarda che bel giardino e che piscina c’è qui, venivano ogni capodanno a festeggiare con loro, adesso guarda qua dietro – mi mostra uno scheletro di edificio… – non c’è più nulla ed i loro corpi erano lì, su quella montagna di sassi e travi…”. Nando si commuove e torna dietro, sui suoi passi, gli stessi che accompagnavano ogni volta i nipotini, rimasti illesi fortunatamente, da quel bel giardino all’inglese fin dentro casa.

Lo saluto e ne approfitto per entrare nel borgo devastato, dove tutto tace e tutto parla da sé di quel che era, di quel che è stato, di quel che rimane. Qualche scatto nel silenzio di stretti vicoli di paese, un arco che incornicia e protegge ancora un tavolino e qualche sedia, il frontespizio della casa degli inglesi con dietro il nulla, un gatto che mi segue speranzoso di ricevere qualcosa in cambio della sua compagnia, qualche casa provata dalla scossa ma ancora in piedi, poi si deve tornare verso l’apice dell’inferno…

 

E’ il turno della squadra di Napoli.

Si supera agevolmente il blocco stradale alle pendici di Amatrice presidiato dai Vigili del Fuoco partenopei e si sale, scortati, dalla parte sud del paese. Il silenzio assordante  ti accoglie come un braccio gelido che ti invita ad avere rispetto per quel che vedrai, per quel che hai visto solo in tv, in foto, narrato da chi era lì, quella notte e nei giorni seguenti. Dovevamo far tutto in breve tempo, entrare nella zona rossa, trovare un’auto sepolta dai detriti, scattare una foto e tornarcene via. Ma quei minuti che mi hanno visto fendere quell’ammasso di sassi è durato un’eternità nei pensieri ed una frazione di secondo negli occhi.

Entrare nel “paese che non c’è più”, ridotto ad un ammasso di ciottoli, inferriate, materassi sparsi ovunque, tappeti sconnessi di calcinacci, tegole e termosifoni a ciondoloni sul nulla, è come avvicinarsi con gli occhi sbarrati sul set di un film di guerra. Tutto tace, solo le raccomandazioni dei vigili al fianco, rispettosamente sommesse, rompono a tratti quel muro di violentata intimità. Pareti squarciate, aperte come scatole di cartone, scoprono la nudità di un ambiente familiare semplice che vìoli con lo sguardo incredulo di chi cerca ancora un segnale di vita in mezzo a tanta desolazione ed inerzia. Tutto è fermo, non si muove nulla adesso, tutto è un fermo immagine e vorresti spingere rewind per far tornare ogni cosa al suo originario posto, come nulla fosse accaduto. Ed invece la realtà ce l’ho sotto i piedi: il passaggio su quelle macerie di chissà quante scarpe ha solcato un sentiero dove la polvere, sui sassi, ha creato un triste tappeto grigio che segna la strada del percorso da compiere. Scatto foto ma ho un senso del pudore che, a differenza di altre occasioni, mi incupisce lo sguardo e mi accartoccia il volto, quasi a farmi desistere. Ma non posso, e non devo: testimoniare quel che è accaduto fa parte del mio mestiere. Provo a non provare nulla e a continuare, stando attento a non slogarmi una caviglia tra le montagnole di detriti che nascondono la reale quota della strada, e chissà che cosa sotto. Sotto i piedi ho come delle lattine blu schiacciate, poi realizzo: è il tetto di un’auto, ed io ci sono sopra, quindi il suolo è almeno ad una paio di metri oltre le suole delle mie scarpe. Lì hai una dimensione, un rapporto e ti accorgi di camminare all’altezza dei primi piani delle case, o di quel che rimane di esse. A fatica si va avanti, c’è il sole oggi, c’era buio pesto, grida ovunque, corpi a terra, dilaniati, senza più vita, allora. Oggi fa caldo, quella notte no. Quella notte il freddo pungente dei quasi 900 metri di altitudine ha steso un velo ghiacciato su una paese, bello e pieno di vita, di sorrisi e di festa, di profumi di suoni e di colori, un manto gelido che ha coperto per sempre un mare di anime che, mentre cammino, non gridano e non respirano più.

Il silenzio di tutte quelle case sventrate, di tutte quelle realtà umane, fa ancora più paura e svuota quel poco di pieno che avevi nello stomaco dopo un caffè. Trattieni il fiato, le emozioni, il respiro, e vai avanti. Una stradina dietro l’altra ed ognuna sommersa dai grandi massi delle pareti di casa sbriciolati giù. Poi, il corso, o quel che rimane di esso, visto dalla parte opposta rispetto alle solite riprese televisive che ci hanno invaso casa da quel 24 agosto… la grande torre con l’ormai tristemente famoso orologio fermo alle 3 e 37 (bloccato alla fine della scossa) mi appare come ultimo vessillo ancora in piedi, testimone di una realtà devastata, violentata barbaramente in pochi secondi, senza pietà. Anche i vigili con noi vedevano quello scempio per la prima volta, commentavano con incredulità ogni cosa che capitava sotto gli occhi: “Ne ho viste tante nella mia vita da pompiere ma questo disastro le supera tutte. Altro che L’Aquila, qui è peggio, qui è un macello vero, povera gente!”, dice nel suo malcelato accento napoletano. “Non si potrebbe ma ci siamo noi: … doveva essere una pizzeria…”. Il vecchio cinema sventrato… l’edificio rosso della banca ancora in piedi… due ragazzi fermi, immobili, inermi, impotenti, rassegnati, di fronte la loro abitazione crollata giù e con essa, come tante intorno e come per tanti di quel luogo, veder svanita per sempre una parte della propria esistenza, quella dell’estate dai nonni, dagli zii, dagli amici del paese. Più avanti, cumoli di macerie coperti da un telo enorme, nero, che la padrona di quella casa che non c’è più, ha voluto far stendere sopra, per una sorta di pudore, a coprire gli effetti personali di una vita esposti al cielo, sbattuti alla mercé di chiunque da una mano gigante e malvagia, la stessa che le aveva schiaffeggiato, in un sol colpo, mura storia ed anima.

Il mio cammino nel paese che non c’è più s’imbatte nella casa squarciata di un amico. E’ la prima che appare sul corso ma non riesci a distinguerla perché è completamente aperta ed attigua ad altre che hanno subito la stessa sorte. Sembra un unico stabile ma sono almeno tre case contigue, distinte e separate, di altrettante famiglie: da fuori, però, è un unico frame con tre storie diverse ed un unico destino come tanti, purtroppo, in questo agglomerato di fiammelle spente.

Basta, non vado oltre, torno indietro ma prima di ridiscendere mi si avvicina un uomo di un’età dettata da uno sguardo incalcolabile che mi fa: “Sono nato in quella casa, una vita in questo paese, ed in tre secondi adesso non c’è più nulla…!”

Sulla strada del ritorno appena fuori dal paese, su un muretto che costeggia la Salaria, c’è scritto “Benvenuti ad Amatrice”. Quello è ancora lì, non è venuto giù, è rimasto in piedi.

Foto: FORMAT ©

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